giovedì 8 luglio 2010

XV° DOMENICA T.O.

XV DOM. T. O.
11 – 07 – 10
(Luca cap. 10) [25]Un dottore della legge si alzò per metterlo alla prova: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». [26]Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». [27]Costui rispose: « Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente e il prossimo tuo come te stesso». [28]E Gesù: «Hai risposto bene; fà questo e vivrai». [29]Ma quegli, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è il mio prossimo?». [30]Gesù riprese:
«Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e incappò nei briganti che lo spogliarono, lo percossero e poi se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. [31]Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e quando lo vide passò oltre dall'altra parte. [32]Anche un levita, giunto in quel luogo, lo vide e passò oltre. [33]Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n'ebbe compassione. [34]Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. [35]Il giorno seguente, estrasse due denari e li diede all'albergatore, dicendo: Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. [36]Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?». [37]Quegli rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Và e anche tu fà lo stesso».

Il dottore della legge che interroga Gesù forse vuole solo mettere in difficoltà il Maestro o forse vuole veramente una spiegazione che vada oltre la Legge scritta di Mosè o forse ancora ( per giustificarsi) è uno di quelli che vuole sempre dire l’ultima parola, che non si arrende mai al suo interlocutore. Quello che è certo che Gesù ci darà forse la più famosa delle sue parabole. La più famosa, ma anche quella con più coinvolgenti risvolti per la nostra vita quotidiana. Infatti: «E chi è il mio prossimo?». E’ forse quello che mi sta a fianco? Quello che mi sta vicino? Per la legge mosaica più o meno era così. <[18]Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore.> Levitico cap. 19). Come si vede si hanno dei doveri precisi nei riguardi delle persone dello stesso popolo. Ma Gesù ci dice che dobbiamo andare oltre e paradigma questo prossimo con un samaritano, un esponente cioè di un popolo in continuo stato di inimicizia coi figli di Israele.
Era un’antica e mai sopita ostilità datata dal tempo della distruzione del regno del nord (il regno di Israele) intorno al 725 a.C. Distruggendo il regno e deportando la popolazione, Sargon II vi deportò popolazioni della Media e persiane, che non essendo popoli semitici niente avevano a che spartire coi discendenti di Abramo. Per l’antica credenza che un popolo doveva prestare culto al Dio di quel territorio questi nuovi abitanti di Samaria cercavano di uniformarsi al culto mosaico. Ma quando circa cinquanta anni dopo cadde anche il regno del sud e Gerusalemme fu distrutta da Nabucodònosor i nuovi samaritani cercarono di dissociarsi dai giudei cercando e vantando parentele con i nuovi dominatori. In effetti, anche i nuovi dominatori provenivano più o meno dalle stesse zone ed erano di stirpe indoeuropea. Quando poi per l’editto di Ciro, persiano, fu concesso ai primi ebrei di ritornare in Giudea e ricostruire Gerusalemme ed il Tempio, i Samaritani si offrirono di aiutarli nella ricostruzione, chiedendo quindi di integrarsi nella popolazione ebraica anche nel culto, ma furono sdegnosamente e decisamente respinti e i samaritani si costruirono un tempio sul monte Garizim tutto per loro.
Il malanimo quindi era di antica e consolidata data. Il giudeo ( delle antiche dodici tribù dieci erano irrimediabilmente disperse; rimaneva solo la tribù di Giuda con quella di Beniamino) tollerava l’idumeo, discendente da Esaù, fratello di Gacobbe e suo avversario, ma non il samaritano. La scelta di un protagonista positivo, quale il samaritano della parabola, poteva sembrare alle orecchie dei giudei come una provocazione.
Sta di fatto che solo il samaritano si fermò a dare soccorso al malcapitato, approssimandosi a lui, facendosi suo prossimo, facendosi carico della sua disgrazia, pulendo le sue ferite versandovi vino e olio e poi caricandolo sulla sua cavalcatura per portarlo alla locanda. Cioè condivise la sua passione, la sua sofferenza fino al punto di farla sua.
Prima del samaritano è passato un giudeo della classe sacerdotale, il quale, appena lo vide, si affrettò a spostarsi sull’altro lato della strada pensando: “Non vorrei che questo sia morto e che contamini la mia purezza rituale impedendomi così di rendere culto al mio Dio, Signore degli eserciti”; ma è più importante officiare un rito o prestare soccorso ad un uomo fatto ad immagine e somiglianza di Dio? Il sacrificio eucaristico, la messa, è la preghiera massima dei cristiani, ma la si può anteporre, per esempio, ad una richiesta di confessione di un malato che non può andare in chiesa da tempo e che quindi da tempo non si confessa?
Questo figlio di Levi non era evidentemente della classe sacerdotale, ma era comunque della tribù di Levi che (Deut.10) Erano i leviti che cantavano col salmo:
[5]Il Signore è mia parte di eredità e mio calice:
[6]Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi,
E’ magnifica la mia eredità (Slm.16)
Anche costui pensa prima alla sua purità rituale, al privilegio accordato dal Signore alla sua tribù, quello, cioè, di essere stati scelti dal Signore per essere i primogeniti fra le tribù. Non può sporcarsi le mani con un ferito o, peggio, con un morto, lui. Per la concezione ebraica di allora un malato era più vicino allo stato di morte a seconda della gravità della sua malattia. Non era in stato di purezza e poteva contaminare la purezza di un altro.
La domanda è sempre quella: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». Ed è preminente, pressante ed attuale. E’ la domanda del dottore della legge che suscita la risposta/domanda di Gesù: "Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?". Certamente con il dottore della legge tutti rispondiamo che è il terzo, il samaritano. E Gesù che risponde non solo al dottore della legge ma anche a noi: «Và e anche tu fà lo stesso» . Gesù non gli ha detto: "Và e impara" ma "Fai allo stesso modo". Quanti si stanno battendo il petto con me incapaci di scelte radicali, come me? Per quanto ci commoviamo all’ascolto di questa parabola e proviamo dispiacere e ribrezzo nei confronti dei due giudei senza cuore, non possiamo nasconderci di essere anche noi affetti da perbenismo, di essere duri di cuore. Se identifichiamo il malcapitato con l’Israele bisognoso di soccorso prima della venuta di Cristo, come vogliono certi esegeti, non possiamo dimenticare l’antisemitismo ancora strisciante in seno alla cristianità e di cui anche noi, coscientemente o inconsciamente, siamo pervasi. Se invece optiamo, come vogliono altri esegeti, per il malcapitato immagine della Chiesa nel mondo continuamente assalita da briganti e malfattori, non possiamo nasconderci di esserci unisti a questi nell’assalire la Chiesa. Se poi crediamo, come altri esegeti ancora, il malcapitato personificazione del Cristo sofferente e sempre crocifisso, non possiamo che batterci il petto e chiedere “pietà” perché siamo noi oggi a metterti sulla Croce, mio Signore, al posto dei romani, di Pilato, del Sinedrio.

giovedì 6 maggio 2010

"Vide e credette"

PER PADRE RICCARDO
Antonio PERSILI
5.B. Il cuore della testimonianza
tratto da: Antonio PERSILI, Sulle tracce del Cristo Risorto. Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, Edizioni Centro Poligrafico Romano, Tivoli 1988.

5.B. IL CUORE DELLA TESTIMONIANZA

Giovanni 20, 5-7:
Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte.

Se questa è la testimonianza di Giovanni, si potrebbe anche ammirare la fede dell'apostolo, ma si dovrebbe dubitare molto della sua capacità di giudizio, perché in questa relazione non c'è niente che faccia pensare all'evento della risurrezione.
Che significato possono avere le bende per terra ed il sudario piegato in un luogo a parte? Possono significare solo l'opera di uno che non sa quello che fa, perché una cosa la lascia cadere a terra ed un'altra invece la piega e la ripone in un luogo a parte.
Forse si comporta in questo modo, perché il sudario, essendo piccolo, era facile da piegare, mentre le bende, essendo molto più grandi, era più difficile da arrotolare?
Se dovessi credere solo per questa testimonianza, io sarei incredulo e credo che molti condividerebbero questa mia incredulità.
Come per esempio Antoine Lion, che scrive: "Giovanni... vide e credette: diversamente dagli altri, egli, solo, giunge a credere senza l'appoggio di una apparizione, fondandosi unicamente sul segno della tomba vuota ed ordinata. Al di là di questo fatto che si poteva interpretare diversamente, egli vide, solo, a quanto pare, il compimento delle parole di Gesù" (77).
Dunque Lion, onestamente, ammette di non capire per quale motivo Giovanni abbia creduto, vedendo l'interno del sepolcro, e chiaramente fa capire di non condividere il giudizio del giovane apostolo, che sembra essere l'opposto dell'apostolo Tommaso.
Finché la testimonianza del grande apostolo, che Gesù amava, sarà così malamente interpretata, Giovanni rimarrà veramente solo (come sottolinea Lion) a credere, senza l'appoggio delle apparizioni.
E non è giusto, perché tutti hanno il diritto di poter credere, senza avere apparizioni, specialmente noi del ventesimo secolo.
Esigere questo diritto non è in contrasto con quanto Gesù ha detto all'apostolo Tommaso, quando lo rimproverò per la sua incredulità: "Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!" (Gv 20,27).
Infatti non si pretende di vedere Cristo risorto e di sottoporlo ad un esame, per accertarne l'identità, ma si vuole solo comprendere dove sta, nella testimonianza di Giovanni, la forza persuasiva, che lo ha portato alla fede.
Salvatore Garofalo traduce così questi versetti: "Giunge anche Simon Pietro, che lo seguiva, e vede i pannilini per terra, e il sudario, che era sul capo di Gesù, non per terra con i pannilini, ma avvolto a parte, in un altro posto" (Gv 20, 5-7). Poi spiega in nota: "Il fatto che i pannilini e il sudario si trovavano ripiegati a parte escludeva una violenza fatta alla salma: se qualcuno avesse voluto rubarla o asportarla non avrebbe perduto tempo a disfare le fasciature ed a riporle in ordine" (78).
Questa spiegazione non è soddisfacente per due motivi: prima di tutto, perché si basa sul falso presupposto che tutto sia in ordine nell'interno del sepolcro, mentre i pannilini per terra indicano certamente disordine e forse anche violenza; in secondo luogo, perché la spiegazione potrebbe dimostrare solo che il corpo di Gesù non è stato rubato e non che il corpo di Gesù sia risorto, mentre Giovanni aveva concluso che Gesù era risorto.
Dunque Giovanni non ha visto quello che dice Salvatore Garofalo, ma qualche altra cosa di completamente diverso.

Inoltre ci possiamo domandare: se il sudario non l'hanno ripiegato i ladri, chi l'ha ripiegato? E perché costui non ha piegato anche i pannilini? Perché il sudario è stato messo in un luogo a parte? Quale può essere quest'altro luogo in un ambiente ristretto qual'è quello di un sepolcro monoposto?
Potremmo continuare a porci domande, che rimarrebbero senza risposta e non ci sarebbe altro da fare che credere senza capire.
Sembra quasi che per essere cristiani si debba avere una logica diversa da quella comune a tutti gli uomini. E ciò non è vero!
E' evidente che, nella relazione di Giovanni, le tracce della risurrezione sono rilevabili nella diversa posizione che hanno assunto, dopo la risurrezione, le "othónia" e il sudario, la cui trattazione costituisce il centro di questa quinta parte, che sarà preceduta da una chiarificazione sulla forma del sepolcro e seguita da una riflessione intorno ad una conferma indiretta della storicità della testimonianza petrina.


77) Antoine LION, «Leggere Giovanni, il quarto vangelo», Marietti, Torino 1976, p. 124.
78) Salvatore GAROFALO, «Il Nuovo Testamento» (tradotto dai testi originali e commentato), Marietti, Torino 1964, p. 277.



Giovedi 1 Aprile, 2010
Dimensioni testo:

www.storialibera.it > epoca_antica > cristianesimo_e_storicita > resurrezione_di_gesu > le_tracce_della_risurrezione_in_giovanni >



Antonio PERSILI
5.B.2. La posizione delle fasce
tratto da: Antonio PERSILI, Sulle tracce del Cristo Risorto. Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, Edizioni Centro Poligrafico Romano, Tivoli 1988.

5.B.2. La posizione delle fasce


La posizione delle "othónia" è indicata da Giovanni soltanto con due parole, ripetute però, sotto forma leggermente diversa, in ciascuno dei tre versetti che stiamo esaminando, per sottolinearne l'importanza: "tà othónia keímena".
Gli esegeti sono divisi sul significato da attribuire a queste due parole, che la Volgata Sisto-Clementina traduce: "linteamina posita", e la traduzione italiana, rende con la frase: "le bende per terra".
Per comprendere cosa Giovanni voglia dire è necessario procedere ad un'attenta analisi dei due vocaboli.

a. Il sostantivo: "Tà othónia"

La traduzione di questo sostantivo è oggetto di vivace discussione tra gli esegeti ed è strettamente legata al significato della medesima parola, usata in Giovanni 19,40 ed in Luca 24,12.
Il sostantivo "othónia" (diminutivo di othóne) può avere molti significati: prima di tutto “pezza”, “pannilino”, “fascia”; poi “tessuto”, “panno di lino”; inoltre “vela”, “tela per vele”, infine “veste di lino”, “tunica leggera” (Vocab. Rocci).

Prendiamo in esame l'opinione di alcuni esegeti:

a1. Per Alberto Vaccari il sostantivo "othónia" avrebbe il significato generico di "tele" e designerebbe ogni specie di manufatto: lenzuolo, bende, sudario.
Fonda questa convinzione sulla testimonianza di un papiro della John Rylands Library di Manchester, appartenente all'archivio di Teofane, un egiziano al servizio di Roma, del 320 dopo Cristo.
In questo papiro, in verità, "othónia" ha veramente un valore generico ed indica una grande varietà di manufatti (82).
Ma anche se nel papiro citato "othónia" ha il significato di "tele", nei vangeli può avere un significato diverso.

a2. Per J. Blinzer le "othónia" sono delle "bende", ottenute da Giuseppe tagliando la sindone, perché Giovanni dice che Gesù fu legato e non avvolto.
Non è possibile legare un corpo con un lenzuolo, ma solo con le bende. Perciò "othónia" è da intendere come "bende" (83).
L'osservazione è pertinente, ma non è semplice avvolgere un corpo nudo con le bende, ed evitare, nello stesso tempo, di spargere il sangue di vita.

a3. Per C. Lavergne il sostantivo plurale "othónia" è la stessa cosa che "sindón" e sarebbe stato usato da Giovanni al plurale, per indicare estensione e perciò significherebbe "lenzuolo grande".
Il Lavergne aggiunge che delle bende possono essere state usate per legare le mani ed i piedi, così come un sudario sarà stato usato per chiudere la bocca (84).
Ma rimane sempre una difficoltà: perché Giovanni, pur sapendo che Gesù, secondo i sinottici, è stato avvolto in una sindone, dice di aver visto delle "othónia"?
Giovanni non poteva valutare la grandezza del lenzuolo, perché era avvolto attorno al corpo di Gesù e perciò non aveva nessun motivo per usare una parola diversa o al plurale.

a4. Per M. Balague la parola "othónia" ha il significato generico di "tele", come per il Vaccari, e perciò in Giovanni indicherebbe insieme sia il lenzuolo che le bende.
Adduce come prova il fatto che i sinottici usano la parola "sindone", ma che poi Luca, uno dei sinottici, usa il termine "othónia", quando Pietro visita il sepolcro (Lc 24,12). Perciò i due termini sarebbero equivalenti (85).
Questa soluzione suppone che la sepoltura sia stata fatta avvolgendo il corpo di Gesù in un lenzuolo, come dicono i sinottici. Ma, se Luca racconta che Pietro, dopo la risurrezione, vide nel sepolcro le "othónia" significa che sul corpo di Gesù fu operato qualche altro intervento.

a5. Infine anche per A. Feuillet le "othónia" hanno il significato generico di "tele".
Giovanni avrebbe preparato il momento della scoperta nel sepolcro con il versetto 19,40 che contiene un modo di esprimersi che sembra illogico, ma è illuminante: "lo legarono con tele", invece di "lo avvolsero con tele".
Infatti, Giovanni lo scrive, - nota il Feuillet - avendo in mente lo spettacolo che poi avrebbe visto nel sepolcro dopo la risurrezione (86).

Ma forse è meglio tradurre ogni parola secondo il suo significato, piuttosto che fare delle congetture, anche se brillanti, e tradurre: "lo legarono con fasce". E, dopo la risurrezione, Giovanni vide le fasce.

a6. Dopo aver dato conto delle opinioni di alcuni esegeti, ora illustro la mia traduzione ed interpretazione.

A mio parere, il significato più probabile del sostantivo "othónia", sia in questo brano che negli altri due sopra citati, è "fasce".
Nell'episodio di Lazzaro, Giovanni dice che il morto uscì dal sepolcro con le mani e i piedi legati con bende (cfr. Parte seconda 2.C.2.c.), ed usa il vocabolo "keiríai", cioè "bende", le quali erano appunto adatte a questo scopo (cfr. Parte seconda 2.D.).
Nel caso di Gesù, invece, trattandosi di avvolgere e legare il corpo intero, le bende non sarebbero state adatte, perché troppo piccole di altezza. Perciò Giuseppe usò le fasce che, avendo un'altezza maggiore, resero il lavoro più spedito e più efficiente per il versamento dei profumi.
A conferma di questa traduzione, si può consultare il Bonazzi (87), che traduce il sostantivo "othónion" con i seguenti vocaboli: “piccola pezza”, “striscia di lino”, “fascia” (da avvolgere i cadaveri); o anche il vocabolario dello Schenkl, che traduce: “picciol pezzo di lino fino; le bende, con le quali gli Ebrei solevano avvolgere i cadaveri NT” (88).
La parola "tà othónia" può avere più di un significato, ma in questo testo evangelico la logica del discorso esige che sia tradotta con la parola "le fasce".
Infatti, Giovanni non poteva avere l'intenzione di darle il valore di "tele", perché avrebbe opposto una parola dal significato generico ad una parola dal significato particolare: il sudario.
Non avrebbe avuto senso l'affermazione che "le tele erano distese ed il sudario non era disteso", come se il sudario non fosse anch'esso una tela.
La logica del discorso esige che la parola "tà othónia" indichi una tela in particolare, come il sudario.
La parola "tà othónia" non può neanche significare "le bende" nel senso di legature, per sostenere la sindone intorno al corpo di Gesù.
Infatti, se Giovanni avesse voluto darle questo significato, avrebbe dovuto aggiungere la parola "sindone" ed avrebbe dovuto esprimersi così: "Le bende e la sindone erano distese e il sudario non era disteso".
Le bende non potevano essere distese, senza che lo fosse anche la sindone, e, poichè le bende non avrebbero potuto coprire del tutto la sindone, essa sarebbe stata visibile.
Infine la parola "tà othónia" non può essere equivalente alla parola "sindone", perché non avrebbe avuto senso usare una parola al plurale, per indicare una tela in particolare, e perché la sindone avrebbe dovuto essere tenuta ferma da legature, che qui non verrebbero nominate.
Tutte queste difficoltà si risolvono, se si traduce la parola "tà othónia" con la parola "le fasce".
Infatti, è normale che questo tipo di tela sia indicata con il sostantivo plurale, come del resto anche in italiano.
La parola "tà othónia" indica le fasce e non le bende, intese come legature, perché Pietro e Giovanni non vedono la sindone, completamente nascosta dalla fasciatura.
La parola "tà othónia" indica una sola tela in particolare e perciò può essere usata logicamente in opposizione alla parola sudario.
E' vero che gli Ebrei non usavano avvolgere i cadaveri con le fasce, ma le particolari circostanze della morte di Gesù indussero Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo ad usare questo procedimento, forse normalmente usato per gli uccisi con spargimento di sangue, che ha avuto il pregio di rendere più evidenti le tracce della risurrezione. Ma, per dimostrare la giustezza di questa interpretazione e traduzione, non è sufficiente far ricorso ai vocabolari, all'analisi letteraria, all'esegesi del testo, ma è necessario procedere anche alla ricostruzione della scena della preparazione del corpo di Gesù alla sepoltura, come gli investigatori, per scoprire l'autore di un delitto, ricostruiscono la scena in cui è stato commesso.

b. Ricostruzione della scena della sepoltura.

L'opera da eseguire è la sepoltura del corpo di Gesù, che è privo delle vesti ed è deturpato da innumerevoli ferite, alcune delle quali con copiose colature di sangue.
I mezzi a disposizione sono: un rotolo di sindone (o tela) portata da Giuseppe d'Arimatea (Mc 16,46) e trentadue chili di una mistura di mirra e di àloe, portata da Nicodemo (Gv 19,40).
Abbiamo la testimonianza dei sinottici, che riferiscono il racconto di testimoni oculari, e dicono che il corpo di Gesù fu avvolto nella sindone e poi deposto nel sepolcro (Mc 16,46).
Abbiamo anche la testimonianza di un testimone oculare, secondo il quale il corpo di Gesù fu legato con fasce insieme ai profumi e poi deposto nel sepolcro (Gv 19,40). Lo stesso testimone dice che, entrato nel sepolcro, dopo la risurrezione, vide le fasce e il sudario.
Sappiamo inoltre che i morti per violenza e con spargimento di sangue dovevano essere seppelliti con il proprio sangue e perciò non dovevano essere nè lavati, nè unti, ma avvolti in un lenzuolo.
Con questi elementi a nostra disposizione, possiamo tentare di ricostruire come Giuseppe e Nicodemo prepararono il corpo di Gesù per la sepoltura.

b1. La maggior parte degli esegeti che abbiamo citato afferma che la sepoltura di Gesù avvenne secondo il racconto dei sinottici.

Giuseppe avrebbe acquistato un lenzuolo, con esso avrebbe avvolto il corpo di Gesù e poi lo avrebbe deposto nel sepolcro.
Questa soluzione presenta gravi difficoltà.
Sappiamo che il corpo di Gesù fu preparato alla sepoltura su una pietra, che si trovava nei pressi del sepolcro, e che di lì fu trasportato nell'interno della tomba.
Ma come avrà fatto Giuseppe a sistemare il solo lenzuolo? Lo avrà lasciato disteso o lo avrà ripiegato? E, se lo ha ripiegato, come ha fatto a trasportare il corpo di Gesù senza far muovere il lenzuolo? (Sindone = cm. 442 X 113)
Lo ha legato con alcune bende, come dice il Vaccari: "Parecchie bende ne legavano i piedi, uno contro l'altro, le mani una sull'altra o, possibilmente, distese lungo i fianchi, altre ancora, probabilmente, per tenere la sindone aderente al corpo" (89).
Questa soluzione presenta molte lacune: perché non erano sufficienti alcune legature per tenere la sindone aderente al corpo; perché è del tutto ignorato l'uso degli aromi, che hanno invece una parte importante nella preparazione del corpo alla sepoltura; perché, quando Giovanni entra nel sepolcro dopo la risurrezione, non vede il lenzuolo tenuto fermo dalle bende, ma vede solamente le fasce.

b2. La sepoltura è avvenuta secondo il racconto di Giovanni.

Giuseppe e Nicodemo, aiutati dai loro servi, avvolgono e legano con le bende o con le fasce il corpo di Gesù, che giace nudo sulla pietra dell'unzione e versano fra esse i profumi.
Ma, per quanto stiano attenti, non possono evitare che la mistura vada a diretto contatto del corpo di Gesù. E questo doveva essere assolutamente evitato, per non toccare il “sangue di vita”.
Inoltre, loro malgrado, Giuseppe e Nicodemo, per procedere in questo tipo di sepoltura, sarebbero stati costretti a palpeggiare il corpo di Gesù, per spostarlo ora a destra ora a manca, sicché il sangue si sarebbe inevitabilmente attaccato alle loro mani. Sarebbe stata una scena difficile da sostenere per un ebreo, anzi impossibile.
Infine, come poteva essere assorbita quella gran quantità di profumi, se il corpo di Gesù era ricoperto solo dalle bende o dalle fasce?
Anche questa ricostruzione è impossibile.

b3. La sepoltura di Gesù è avvenuta secondo i racconti dei sinottici ed insieme secondo il racconto di Giovanni.

Giuseppe d'Arimatea, aiutato dai suoi servi, avvolge il corpo di Gesù in una tela subito dopo aver deposto Gesù dalla croce e, così avvolto, lo trasporta sulla pietra dell'unzione, avendo cura di non toccare assolutamente il corpo di Gesù con le mani.
Sembra che i sinottici si siano preoccupati di sottolineare il fatto che Giuseppe, avvolgendo il corpo di Gesù nella tela, eseguì alla lettera la prescrizione di seppellire il sangue vivo con la salma.
Infatti questa prescrizione, messa poi in iscritto da un testo rabbinico, che abbiamo già citato (cfr. Parte seconda 2.F.), tra l'altro diceva: "Si metta solo sui suoi vestiti una copertura e si seppellisca anche la terra su cui eventualmente era caduto il sangue".
La tela costituisce appunto la copertura, che isola il corpo di Gesù da qualsiasi contatto esterno, ma non è la preparazione alla sepoltura, che invece viene descritta da Giovanni (Gv 19,40).
Le parti sovrabbondanti della tela vengono ripiegate accuratamente al di sopra del corpo. Poi, mentre alcuni tengono ferme le ripiegature, Giuseppe provvede ad avvolgere e legare il corpo di Gesù con le fasce, mentre Nicodemo versa la mistura profumata, che viene assorbita internamente dal lenzuolo ed esternamente dalle fasce.
Al termine, il corpo di Gesù, eccetto il capo, è tutto avvolto nelle fasce, che ricoprono e tengono fermo il lenzuolo.
Quando Giovanni entrò nel sepolcro, dopo la risurrezione, vede, appunto, le fasce.
Tutte le tele occorrenti (la grande tela, le fasce ed il sudario) furono preparate, secondo le esigenze, dallo stesso Giuseppe d'Arimatea, tagliandole dal rotolo di sindone.
Ma comunque sia stato fatto l'avvolgimento del corpo di Gesù, il segno della risurrezione consiste nella posizione che le "othónia" e il sudario presero dopo la risurrezione.
Perciò è importante il verbo, che ora ci accingiamo a trattare.

c. Il verbo "keímena".
Il verbo "keímena" è il participio di "keímai", che corrisponde al latino "jaceo" e significa: "giacere, essere disteso, seduto, steso, orizzontale; si dice di una cosa bassa in opposizione ad una elevata, eretta, come per esempio il mare calmo rispetto al mare agitato" (vocab. greco Bonazzi).
Perciò il significato che Giovanni vuol dare a questo verbo è quello di far risaltare che prima le fasce erano rialzate (come un mare agitato), perché all'interno c'era il corpo; dopo la risurrezione, invece, le fasce erano abbassate, distese (come un mare calmo), giacendo nel medesimo posto in cui si trovavano quando contenevano il corpo di Gesù.
E' arbitrario farle giacere per terra, perché, se così fosse, Giovanni avrebbe dovuto dirlo espressamente, aggiungendo una determinazione di luogo, se esso fosse stato diverso da quello, in cui le fasce si trovavano.
La Volgata nell'edizione Sisto-Clementina traduce con il participio "posita", che rende bene l'idea delle fasce distese e vuote, perché il verbo "ponere" significa appunto "mettere giù".
Perciò le due parole "ta othónia keímena" si possono tradurre: "le fasce distese", ma intatte, non manomesse, non disciolte.

I tre versetti, che costituiscono il cuore della testimonianza, contengono in realtà due testimonianze, quella di Giovanni e quella di Pietro.
Nel versetto quinto, Giovanni testimonia di aver scorto "le fasce distese" sulla pietra sepolcrale, senza entrare nella camera mortuaria, chinandosi e gettando lo sguardo all'interno del sepolcro, attraverso la bassa apertura, di cui abbiamo parlato nel paragrafo sulla "forma del sepolcro".
Il giovane apostolo non ci comunica la sua reazione a questa scoperta. E' certo che non credette subito alla risurrezione, iniziò però il cammino della fede.
Nel versetto seguente, il sesto, Giovanni narra l'arrivo di Simon Pietro, che entrò immediatamente nel sepolcro e rimase in contemplazione di ciò che Giovanni aveva già scorto: "le fasce distese".
Le "fasce distese" costituiscono la prima traccia della risurrezione: era infatti assolutamente impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce, semplicemente rianimato, o che fosse stato asportato, sia da amici che da nemici, senza slegare le fasce o, comunque, senza manometterle in qualche maniera.
Questa traccia sarebbe stata sufficiente per credere nella risurrezione, ma nel sepolcro v'era una traccia più sorprendente, che Pietro ebbe la ventura di vedere per primo: la posizione del sudario.

82) A. VACCARI, «Archeologia e Scienze affini di fronte al sacro testo dei Vangeli», in AA.VV. «La Sacra Sindone nelle ricerche moderne», Torino, (Lice-R. Berruti) 1950 (Atti del Convegno Nazionale 1939), pp. 141-152; «Sindone, bende e sudario nella sepoltura di Cristo» in AA.VV., «Secoli sul mondo», Marietti, Torino 1955, pp. 438-442.
83) J. BLINZER, «Othónia und andere Stoffbezeichnungen im "Waschekatalog" des Agypters Theophanes und im Neuen Testament» in «Philologus» 99 (1955) pp. 158-166; "Sindon" in evangeliis (Rectificatio), in VD 34 (1956) pp. 112-113.
84) C. LAVERGNE, «La preuve de la résurrection de Jésus d'apres Jean 20,7; Le sudarium et la position des linges apres la résurrection; Le corps glorieux et la preuve que Jésus est ressuscité», Estratto dai Quaderni «Sindon» nn. 4 e 5, Anno III, Torino 1961.
85) M. BALAGUÉ, «La prueba de la resurreccion (Jn 20, 6-7)», in «EstBib», 25, 1966, pp. 169-192.
86) A. FEUILLET, «La découverte du tombeau vide en Jean 20,3-10 et la foi au Christ ressuscité», in «Esprit et vie» 87 (1977) pp. 257-266, e pp. 273-284; «L’identification et la disposition des linges funeraires de la sépolture de Jésus d'après les données du Quatrième Evangile», in P. COERO-BORGA, «La Sindone», n. 3, pp. 239-251.
87) B. BONAZZI, «Dizionario greco-italiano», Napoli 1907.
88) C. SCHENKL, «Vocabolario greco-italiano», Vienna, tradotto da Francesco Ambrosoli.
89) A. VACCARI, «Sindone, bende e sudario nella sepoltura di Cristo» in AA.VV., «Secoli sul mondo», Marietti, Torino 1955, pp. 442.






Giovedi 1 Aprile, 2010
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Antonio PERSILI
5.B.3. La posizione del sudario
tratto da: Antonio PERSILI, Sulle tracce del Cristo Risorto. Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, Edizioni Centro Poligrafico Romano, Tivoli 1988.

5.B.3. La posizione del sudario

Nell'interno del sepolcro non erano visibili solo le "fasce distese", ma vi era, visibile, anche "un sudario".
Giovanni riferisce la testimonianza di Pietro circa la posizione di questo sudario nel versetto settimo.
Se è importante, per la fede di Giovanni, la posizione delle fasce, lo è molto di più la posizione del sudario.
E' una posizione così sorprendente che è necessario un intero versetto di venti parole per descriverla.
Cercheremo di analizzare accuratamente queste parole, per comprenderne il messaggio.

a. "Kaì tò soudárion". "E il sudario".

Il sudario, come abbiamo visto nell'episodio di Lazzaro, non era altro che un fazzoletto, usato, come dice l'origine della parola, per asciugare il sudore.
E' certo che il sudario, al tempo di Gesù, non aveva uno specifico uso funerario e solo accidentalmente poteva essere usato in occasione della sepoltura di un morto.
Solo più tardi, sotto l'influsso di una errata interpretazione di questa pericope, si è fatta una terribile confusione, per cui il sudario è diventato un panno mortuario.
Si è creduto perfino che il sudario di Giovanni e la sindone dei sinottici fossero due parole equivalenti; e, quel che è peggio, si è creduto che sia l'uno che l'altra fossero delle tele funerarie, delle coltri mortuarie, come per esempio dice il Vignon (90).
Un fazzoletto è diventato un lenzuolo funerario!
Questa incredibile confusione di termini ha talmente complicato la testimonianza di Giovanni da renderla incomprensibile.
La traduzione di queste tre parole non presenta difficoltà alcuna, ma è necessario sapere che il sudario è un fazzoletto di tela, di forma quadrata o rettangolare, che poteva avere dai sessanta agli ottanta centimetri di lato, usato normalmente per asciugare il sudore, per pulire il naso, insomma per usi igienici, che solo in casi particolari poteva essere anche utile per usi funerari.
Naturalmente, la traduzione esatta è: "E il sudario".

b. "Hò ên epì tês kephalês autoû". "Che gli era stato posto sul capo".

Giovanni introduce questo inciso nella testimonianza di Pietro, per mettere in guardia il lettore dal credere che Pietro stia parlando dell'altro sudario, che si trovava all'interno della grande tela, come mentoniera, e che perciò non era visibile.
Giovanni insomma precisa che Pietro ha visto il sudario, che stava all'esterno, sul capo di Gesù, e non quello che stava all'interno, intorno al capo di Gesù.
Esaminiamo l'opinione degli esegeti intorno a questo sudario: alcuni pensano che Pietro intenda parlare proprio del sudario-mentoniera; altri invece affermano che Pietro non può parlare del sudario-mentoniera, perché non lo vede, ma di un sudario, che sta sul capo e perciò visibile; questi stessi poi hanno pareri diversi nello stabilire la posizione di questo sudario sul capo di Gesù.
Queste sono le opinioni intorno al sudario:

b1. Alcuni, come abbiamo già detto, (cfr. Parte quinta 5.B.2.a3.), hanno identificato il sudario con la sindone, rendendo impossibile la comprensione della testimonianza di Pietro.

b2. Altri, come A. Vaccari, C. Lavergne, M. Balague, A. Feuillet, i cui lavori abbiamo citato a proposito del significato della parola “tà othónia”, identificano questo sudario con il sudario-mentoniera.
La prova della risurrezione consisterebbe nel fatto che le tele erano distese ed intatte sulla pietra sepolcrale, fuorché dalla parte del capo, dove le tele sarebbero rimaste sollevate, a causa del sudario-mentoniera, che, rimasto avvolto ed arrotolato, le sosteneva dall'interno.
Ma giustamente il professor Delebecque denunciò l'inconsistenza di questa interpretazione, che presenta molti punti deboli, primo fra tutti il fatto che il sudario-mentoniera non risultava visibile all'esterno, mentre Pietro e Giovanni vedono con i propri occhi questo sudario (91).

b3. Infine altri fanno derivare la parola "soudárion" dalla parola aramaica "soudarâ", usata per indicare un grandissimo telo, come abbiamo già detto (cfr. Parte seconda 2.D.).

b4. Scartata dunque l'ipotesi del sudario-mentoniera e scartate le altre due che identificano il sudario o con la sindone o con un telo grandissimo, e accettato che Giovanni intendeva parlare di un sudario che stava sul capo di Gesù, all'esterno perciò della grande tela, gli esegeti si trovano di nuovo discordi nello stabilire il suo esatto impiego.

- G. Ghiberti riconosce che dall'esame dei testi, in cui si trova la parola "sudario" emerge che il senso prevalente è quello di sudario posto sul volto del cadavere all'interno della sindone. Ma, in questo caso, non sarebbe stato visibile. E Pietro non poteva parlare di un sudario che non vedeva.
Poi, ipotizzando che il sudario sia sopra la sindone, si domanda perplesso quale funzione svolga: "Nel caso invece che il velo ricopra il lenzuolo, non si comprende bene che cosa starebbe a fare" (92).
Se Giuseppe d'Arimatea lo ha posto all'esterno aveva le sue buone ragioni, che illustreremo tra breve.

- R. Schnackenburg, nel suo commento al vangelo di Giovanni, dice che il sudario era un velo posto sul volto e non una mentoniera (93).
Non specifica se fu posto sopra o sotto la grande tela.

- Si può pensare che il sudario fosse posto sul capo a modo di cuffia, all'esterno della sindone e che non velasse il volto.
Hanno questa opinione quelli che accostano le fasce funerarie di Gesù a quelle della natività; e nel sudario vedono la cuffia.

- A me sembra che il sudario sia stato posto su tutto il capo di Gesù.
Infatti Giovanni usa la parola "kephalê", che corrisponde al latino "caput" e perciò vuol significare "capo" in opposizione al "tronco".
Questo sudario, come precisa la testimonianza di Pietro al termine del versetto, è avvolto attorno al capo di Gesù e svolge la funzione che le fasce svolgono per il resto del corpo.
Giuseppe non ha reputato opportuno fasciare anche il capo con le “othónia”, ma si è fermato al collo. A questo punto, per non lasciare le piegature della sindone in disordine e per non lasciare gli unguenti esposti all'aria senza protezione, avvolse il capo di Gesù con un sudario.

Dunque i sinottici dicono che il corpo di Gesù, tutto intero (capo e tronco) fu avvolto in una sindone; Giovanni aggiunge che al di sopra di questa sindone c'erano le fasce che avvolgevano e legavano il tronco del corpo di Gesù, mentre un sudario avvolgeva e legava il capo.
Per esprimere il concetto di avvolgere, Giovanni, per il sudario, usa lo stesso verbo "entylísso", usato da Matteo e Luca, per indicare l'avvolgimento della sindone.
Questa interpretazione è in perfetto accordo con quanto Pietro e Giovanni videro, entrando nel sepolcro: la fasce ed il sudario.
Forse è meglio tradurre la frase conservando l'andamento della proposizione giovannea: "che era sul capo di lui".

c. "Ou metà tôn othoníon keímenon". "Non per terra con le bende".

Pietro comincia col determinare quale non era la posizione del sudario.
Secondo la traduzione italiana "non era per terra con le bende".
In realtà, Pietro vuole dire che il sudario non è disteso sulla pietra sepolcrale.
I matematici greci dell'antichità usavano l'espressione "keímenon schéma", nel senso di "figura in piano, orizzontale" (vocab. greco Rocci).
Pietro vuol dire la stessa cosa: le fasce erano distese in piano, si trovavano in posizione orizzontale, mentre il sudario non era in posizione orizzontale, ma in posizione verticale, cioè rialzata.
Perciò la traduzione della frase è: "Non con le fasce disteso".

d. "Allà khorìs entetyligménon". "Ma piegato a parte".

Pietro, come era presumibile, continua a spiegare qual era l'esatta posizione del sudario.
L'infelice traduzione italiana distrugge la mirabile traccia, che Pietro ha rilevato con grande cura ed ha descritto con laconicità e chiarezza.
Infatti la traduzione contiene tre errori che stravolgono la testimonianza di Pietro.

d1. Prima di tutto, il participio "entetyligménon" è stato tradotto, arbitrariamente, con il participio italiano "piegato" invece che con "avvolto". Il verbo "entylísso" corrisponde ai verbi italiani: "avvolgo, involgo, ravvolgo" (vocab. greco-italiano Rocci).
Conferma questo significato il fatto che il verbo "entylísso" deriva dal sostantivo "entyle", che corrisponde all'italiano "accappatoio, coperta" e perciò non può assolutamente avere il significato di "piego", perché l'accappatoio e la coperta servono per avvolgere qualcuno o qualcosa e non per piegare.

d2. Inoltre, è vero che l'avverbio "khorìs" significa, in italiano, "separatamente, a parte, in disparte" e, per questo motivo, la Volgata rende la frase in latino "sed separatim involutum", cioè "ma separatamente avvolto". Ma è anche vero che lo stesso avverbio, in senso traslato, può significare "differentemente, al contrario" (vocab. greco-italiano Rocci).
Cioè l'avverbio "khorìs" può assumere due significati: quello locale, che è quello originario, e quello modale, che è quello traslato.
Pietro vuol dare all'avverbio "khorìs" il significato modale, perché la logica della sua testimonianza consiste nell'opporre la posizione assunta dalle fasce (distese), a quella, diversa, assunta dal sudario (avvolto).
Non ha senso perciò tradurre l'avverbio "khorìs" con l'avverbio italiano "separatamente", perché non corrisponde alla dinamica del pensiero di Pietro, invece è logico e naturale tradurlo con l'avverbio "al contrario", perché con tale avverbio si chiarisce e si completa l'opposizione trai due modi di essere delle fasce e del sudario.

d3. Infine la traduzione italiana separa l'avversativo "allà" dall'avverbio "khorìs" e malamente traduce "ma piegato (in un luogo) a parte", come se il sudario, magicamente piegato da qualcuno, fosse emigrato, per altro inspiegabile mistero, in un luogo diverso da quello in cui si trovavano le fasce.
Pietro, intenzionalmente, ha posto "khorìs" tra l'avversativo ed il verbo, perché l'avverbio ha la duplice funzione di precisare sia l'avversativo che il verbo.
L'avverbio "khorìs" non deve essere tolto dal posto che occupa, anche perché, insieme con l'avversativo "allà", oppone "keímenon", cioè disteso, a "entetyligménon", cioè avvolto: "Non disteso, ma al contrario avvolto".

Concludendo, la frase si deve tradurre in modo da rendere l'idea che il sudario si trova in una posizione diversa da quella delle fasce e non in un luogo diverso.
Pietro contempla le fasce distese sulla pietra sepolcrale e, sulla stessa pietra sepolcrale, contempla anche il sudario, che, al contrario delle fasce, che sono distese, è in posizione di avvolgimento, anche se non avvolge più nulla.
La traduzione esatta della frase è: "Ma al contrario avvolto".

e. "Eis héna tópon". "In un luogo".

Queste tre brevi parole, benché semplicissime, presentano gravi difficoltà di traduzione e perciò anche di interpretazione.
I grecisti si sono divisi in due schiere: da una parte, quelli che vorrebbero tradurle con l'espressione italiana: "nello stesso luogo", o "esattamente al suo posto" o "nella medesima posizione" o con altre espressioni simili; dall'altra, quelli che invece negano recisamente la possibilità di una tale traduzione e interpretano al contrario: "in un luogo" o "in un luogo a parte", o "in un altro posto", o con altre espressioni simili.

e1. Difendono la prima interpretazione: A. Feuillet e M. Balagué.

Il Feuillet dà all'aggettivo numerale "heîs" il valore ordinale "prôtos", per cui Pietro avrebbe visto il sudario "nel primo luogo", cioè "nello stesso luogo", dove si trovava prima della risurrezione.
Il Feuillet crede opportuno aggiungere anche un avverbio, per rendere meglio il pensiero dell'apostolo, e traduce: "Esattamente al suo posto".
Il biblista francese, come abbiamo già accennato, ritiene che il sudario, di cui si parla, sia la mentoniera, rimasta rigida (egli dice: arrotolata ed avvolta) nell'interno della Sindone.
Per conseguenza, la Sindone sarebbe stata tutta distesa sulla pietra sepolcrale, eccetto dalla parte del capo, dove sarebbe stata tenuta sollevata dalla mentoniera, rimasta rigida nell'interno (94).
Questa soluzione contrasta con la testimonianza di Pietro, che dichiara di aver visto il sudario, mentre la mentoniera non era visibile; inoltre il Feuillet pensa che il corpo di Gesù sia stato avvolto solo nella Sindone, tenuta ferma con legature, ma, come abbiamo già detto, ciò è impossibile, soprattutto dal punto di vista della pratica realizzazione.
Il Balagué considera l'espressione "eis héna tópon" un semitismo con il quale Pietro vuole esprimere il concetto: "nello stesso luogo".
Infatti, aggiunge il Balagué, se Pietro avesse voluto dire che il sudario era in un altro luogo, avrebbe detto: "eis héteron tópon", come vien detto negli Atti: "Pietro... uscì e si incamminò verso un altro (héteron) luogo" (At 12,17) (95).
La Volgata traduce questa frase: "In alium locum".
Bisogna convenire con Balagué che l'espressione "eis héna tópon" non può significare "in un altro luogo" e bisognerà tenerne conto quando si cercherà di comprenderne il vero significato.
In verità, sembrerebbe che "eis héna tópon" si debba interpretare "nello stesso luogo", anzi addirittura "nella medesima posizione".
Infatti l'aggettivo numerale "heîs", sorretto dalla preposizione "eis" prende il significato di "stesso, medesimo", come per esempio: "eis én" (in uno, insieme); oppure "eis mían boulén bouleúein" (essere di uno stesso parere, cioè, all'unanimità) in Iliade ed in Tucidite (cfr. Vocab. Rocci e vocab. Schenkl).
Perciò, bene avrebbe tradotto la Volgata Sisto-Clementina "in unum locum", che significa "nello stesso luogo" o, ancor più chiaramente, "nella stessa posizione".
Infatti l'aggettivo numerale "unus" può avere due significati particolari: da solo o unito con "solus", come rafforzativo, significa "uno solo" (Credo in unum Deum = Credo in un solo Dio); da solo o unito con "idem", come rafforzativo, significa "lo stesso, il medesimo" (uno tempore = nel medesimo tempo), come si legge in Cicerone e Cesare, (cfr. Vocab. latino Calonghi).
L’"unum" di Pietro assumerebbe, qui, questo secondo significato particolare.
Il sudario sarebbe rimasto "nella medesima posizione" o "nello stesso luogo", mentre le fasce avevano cambiato posizione perché erano distese.
Non presenta difficoltà il fatto che la preposizione "eis" con l'accusativo denota direzione o movimento verso un luogo.
Infatti, non sempre la preposizione "eis" con l'accusativo è usata per indicare un moto a luogo in atto, bensì può essere anche usata per indicare uno stato in luogo, conseguente di un moto a luogo, già avvenuto in precedenza, come si legge in taluni vocabolari greci: "Ma talvolta si trova la preposizione "eis" con l'accusativo con verbi di quiete (invece che "en" col dativo), quando lo scrittore ha avuto in mira il movimento fatto prima di giungere allo stato di quiete" (Vocab. greco Sanesi) (96).
"Eis" con l'accusativo si trova anche con i verbi di stato in luogo, perché la mente in certa guisa premette l'idea di arrivarci (Vocab. greco Bonazzi).

e2. Difendono la seconda interpretazione valenti grecisti, come Edouard Delebecque.

Essi sostengono che in nessun caso "eis héna topón" della testimonianza di Pietro, riferita nel vangelo di Giovanni, può significare "nello stesso luogo".
Il Delebecque così scrive a Bruno Bonnet-Eymard a questo proposito: "No, non può avere questo significato. Potrete citare Gn 1,5 e 8,13, in cui "mía" sembra un ordinale, mentre si tratta del "giorno uno" ("mía" femminile) e del giorno uno del primo (prôtos) mese", in contrapposizione a "deúteros". E questo senso apparente si trova solo nella traduzione dei Settanta, mai nel Nuovo Testamento, in cui il primo si dice sempre "prôtos" e mai "heîs". Non appellatevi al greco classico ed alle iscrizioni in cui, qualche volta, "heîs" può significare "primo", ma soltanto se è accoppiato ad un aggettivo ordinale. In San Giovanni "heîs" non può significare che "uno", o avere anche il senso dell'indefinito "tìs". Il senso di "primo" è impossibile!" (97).
La risposta del Delebecque è sulla stessa linea di quanto afferma M. Zerwick nel suo manuale di greco biblico: "Alla generale evoluzione della lingua greca (come anche delle altre lingue) appartiene che già nel Nuovo Testamento il numerale "heîs" prenda il posto di "tìs" e divenga quasi un articolo indeterminativo (coll'aiuto insieme dell'influsso semitico: dell'ebraico "’ehad" e dell'aramaico "had"): "heîs grammateús" (Mt 8,19; cfr. Mc 9,17; 10,17); "eperotêso hymâs héna lógon" (Mc 11,29)... ma i due si possono trovare anche insieme: "heîs tis" (Lc 22,50)" (98).
Perciò l'espressione "eis héna tópon" si dovrebbe tradurre o "in un luogo" oppure "in qualche luogo".

Sono debitore di queste delucidazioni al professor Mario Cantilena, dell'Università di Venezia, a cui va il mio ringraziamento.
Esaminando attentamente le due opposte traduzioni, si deve convenire che la seconda, propugnata da quei grecisti che non hanno soluzioni precostituite da difendere, è più logica e più conforme alla situazione, in cui si trova Pietro, di quanto lo sia l'altra, che pure è così allettante.
Infatti Pietro contempla le fasce e il sudario nell'interno del sepolcro, senza fare alcun riferimento alla loro posizione prima della risurrezione.
Perciò le espressioni "esattamente al suo posto" o "nella medesima posizione" non hanno alcun senso nella testimonianza di Pietro, perché egli vuole stabilire il confronto tra la posizione delle fasce e quella del sudario.
Le fasce ed il sudario, che sono sotto gli occhi di Pietro e che egli contempla sulla pietra sepolcrale rendono errata anche ogni traduzione che interpreti l’"eis héna tópon" come se il sudario fosse in un altro luogo, in disparte, perché il sudario è sotto gli occhi di Pietro che, senza muoversi, anzi, senza spostare lo sguardo, lo contempla insieme con le fasce.
Ora ci troviamo in una situazione veramente imbarazzante.
La traduzione estremamente significativa "nella medesima posizione", che darebbe senso a tutto il versetto, è grammaticalmente errata ed insostenibile, non solo nell'ambito del greco biblico ma anche della logica del pensiero di Pietro.
La traduzione grammaticalmente esatta "in un luogo" è del tutto inespressiva e rende il versetto oscuro.
Gli esegeti, fermi sulle loro posizioni, non tentano neanche nuove vie, per cercare di capire la testimonianza dell'apostolo, fondamentale per stabilire la storicità della risurrezione di Gesù.

e3. In verità, esiste una terza traduzione, grammaticalmente esatta, dell'espressione "eis héna tópon", che restituisce alla testimonianza di Pietro tutto il suo valore di descrizione precisa e vivace.

Leggiamo, per intero, il versetto settimo, secondo la nuova interpretazione, inserendo, nel finale, la versione "in un luogo" sostenuta dai grecisti : "E il sudario, che era sul capo di lui, non con le fasce disteso, ma al contrario avvolto in un luogo". La traduzione "in un luogo" toglie al versetto ogni vigore perché lo conclude con una espressione indeterminata; non chiarisce, ma piuttosto confonde il significato della testimonianza.
Il versetto, che è stato inserito, per descrivere la posizione del sudario, termina affermando che non si sa dove esso sia.
La testimonianza di Pietro diventa assurda, perché egli avrebbe detto: "E il sudario (inizio del versetto) è in un luogo (fine del versetto)".
A parte l'assurdità della testimonianza, dalla lettura del versetto risulta evidente che Pietro vuole contrapporre la posizione delle fasce a quella del sudario e che non vuole contrapporre il luogo in cui si trovano le fasce al luogo in cui si trova il sudario, perché, in questo caso, avrebbe dovuto dire espressamente in quale luogo si trovavano le fasce.
Cioè, Pietro avrebbe dovuto precisare che la fasce erano distese sulla pietra sepolcrale e che il sudario era invece avvolto in un altro luogo, diverso dalla pietra sepolcrale, e avrebbe dovuto nominarlo.
Poiché Pietro non nomina nessun luogo in particolare, è evidente che sia le fasce che il sudario si trovano nello stesso luogo e che questo luogo non può essere altro che la superficie della pietra sepolcrale.
Inoltre, cosa significherebbe che il sudario al contrario è avvolto "in un luogo"?
Certo il sudario non può essere avvolto in più luoghi; è ancora più illogico dire che era in un luogo indeterminato, perché la precisazione non avrebbe precisato nulla e sarebbe risultata del tutto pleonastica; infine non può significare che è in un altro luogo, perché allora Pietro avrebbe usato un aggettivo più adatto allo scopo.
Allora, si deve concludere che il sostantivo "tópos" non si deve tradurre con il sostantivo italiano "luogo", ma piuttosto con il sostantivo "posizione".
Pietro, infatti, contempla la posizione del sudario e non il luogo, in cui il sudario si trova, che è certamente la pietra sepolcrale; e non oppone i luoghi in cui le fasce ed il sudario si trovano, ma oppone le rispettive posizioni: le fasce distese, il sudario avvolto.
Tradurre "tópos" con il sostantivo "posizione" non è un arbitrio, perché "tópos" ha anche questo significato (vocab. greco-italiano Rocci).

Ma qual è la posizione del sudario, così importante da dovergli dedicare un intero versetto per descriverla?
Pietro la precisa, con un tocco d'artista, per mezzo di una preposizione "eis" e di un aggettivo numerale "héna".
Abbiamo visto che questo aggettivo numerale "héna" non può avere il significato di "prôtos" e che perciò non si può tradurre che il sudario stava "nella medesima posizione"; che non si può neanche sostenere che il sudario si trovi in un altro luogo, diverso dalla pietra sepolcrale; infine, che non si può neanche affermare che il sudario stia in una luogo indeterminato, perché tale affermazione sarebbe inutile, pleonastica e addirittura assurda; dobbiamo perciò concludere che l'espressione "heis héna" deve avere un altro significato, che renda viva e precisa la testimonianza di Pietro.
Il numerale "heîs, mía, hén", come si legge nel vocabolario greco-italiano del Bonazzi, può essere usato con il significato di "UNICO": "Talora deve tradursi "UNICO" (in senso di eccellenza, specialmente quando rinforza il superlativo che gli vien dopo).
Questo è il significato che Pietro ha voluto dare all'aggettivo numerale "héna".
Il sudario, al contrario delle bende, era avvolto in una posizione UNICA, nel senso di singolare, eccezionale, irripetibile. Infatti, mentre avrebbe dovuto essere disteso sulla pietra sepolcrale con le fasce, era invece rialzato ed avvolto.
La posizione del sudario appare unica per eccellenza agli occhi di Pietro o poi di Giovanni, perché è una sfida alla forza di gravità.
Ora, il versetto ha assunto il suo vero significato e corrisponde al logico svolgimento del pensiero di Pietro: "E il sudario (inizio del versetto) è in una posizione unica (fine del versetto)".
Qualcuno potrebbe respingere questa terza traduzione, sostenendo che, secondo quanto si afferma nel manuale di greco biblico dello Zerwick, già nel Nuovo Testamento il numerale "heîs" prende il posto di "tìs" e diviene quasi un articolo indeterminativo.
Questa regola non è così rigida come potrebbe sembrare. Infatti nel Nuovo Testamento vi sono numerosi esempi in cui "heîs" conserva il suo valore originario e spesso assume il valore di "unico" nel senso di "uno solo".

Esempi :
- Dalla prima Lettera ai Corinzi di S. Paolo: "Hóti heîs ártos, hén sôma hoi polloí esmen". "Poichè c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo" (1 Cor 10,17).
- Dalla Lettera agli Ebrei: "Miâ gár prosforâ". "Con un'unica oblazione" (Ebr 10,14).
- Dalla Lettera di Giacomo: "Hóstis gár ólon tòn nómon terése, ptaíse dè en hení...". "Poichè chiunque osservi tutta la legge, ma la trasgredisca anche in un punto solo...." (Gc 2,10).
- Dal Libro dell'Apocalisse: "Hoûtoi mían gnómen échousin". "Questi hanno un unico intento" (Ap 17,13).

E' vero che il numerale "heîs", nel greco biblico, non può tradursi con il significato di "prôtos", come dice il Delebecque, ma non è vero che esso assuma sempre il valore di un articolo indeterminativo.
Infatti, dagli esempi citati, risulta che spesso, nel Nuovo Testamento, viene usato per significare "unico" nel senso di "uno solo".
Nel brano che ci interessa, "heîs" è usato nel senso di "unico per eccellenza". Dunque la frase deve tradursi: "in una posizione unica".

Pertanto, i tre versetti (Gv 20, 5-7), che abbiamo analizzato e che costituiscono il cuore della testimonianza, si possono tradurre così:
5. (Giovanni) chinatosi, scorge le fasce distese, ma non entrò.
6. Giunge intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entra nel sepolcro e contempla le fasce distese (afflosciate, vuote, ma non manomesse)
7. e il sudario, che era sul capo di lui, non con le fasce disteso, ma al contrario avvolto (rimasto nella posizione di avvolgimento, rialzato, ma non sostenuto nell'interno, perché vuoto) in una posizione unica (straordinaria, eccezionale, perché contro la legge della gravità)".


90) P. VIGNON, «Le linceul du Christ», Paris 1902, pp. 125 e segg; «Le Saint Suaire de Turin», Paris 1938 e Torino 1978, pp. 66 e segg; L’opinione del Vignon fu ripresa da alcuni studiosi, soprattutto francesi.
91) E. DELEBECQUE, «Le Tombeau vide: Jean 20, 6-7» in «Revue des Etudes grecques», luglio-dicembre 1977, p. 243.
92) G. GHIBERTI, «La sepoltura di Gesù», Pietro Marietti, Roma 1982, pag. 45.
93) R. SCHNACKENBURG, «Il quarto Vangelo», Paideia, Brescia.
94) A. FEUILLET, Articolo in «La Sindone e la Scienza. Bilanci e Programmi. 2^ Congresso Internazionale di Sindonologia» Ed. Paoline, Torino 1979, p. 247.
95) M. BALAGUÉ, «La prueba de la resurreccion (Jn 20, 6-7)», in «EstBib», 25, 1966, p. 188.
96) T. SANESI, «Vocabolario greco-italiano», Pistoia, 1938.
97) E. DELEBECQUE, «Lettera a B. Bonnet-Eymard», in «La Sindone - Scienza e Fede» a cura di L. Coppini e F.Cavazzutti, nota 26, p. 97.
98) M. ZERWICK, «Graecitas Biblica», Romae 1966, p. 53.

lunedì 12 aprile 2010

LA RISURREZIONE DI GESU' CRISTO

LA RISURREZIONE DI NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO
La Chiesa insegna che la risurrezione di Gesù è un fatto storico, ma nessuno ha mai tentato di dimostrarlo. Infatti, sono tutti convinti che non è possibile conoscere quello che accadde nell'interno del sepolcro. Questa convinzione è errata, sia dal punto di vista scientifico che da quello teologico.
E’ scientificamente errata, perché anche gli avvenimenti e i fenomeni, verificatisi in luoghi remoti e in lontane età, possono diventare fatti storici, quando se ne scoprono le tracce che con le loro indicazioni consentono la conoscenza del fatto e la possibilità di farne la ricostruzione.
E’ anche teologicamente errata, perché l'Incarnazione del Figlio di Dio non avrebbe senso se non si potesse dimostrare la storicità non solo della sua morte, ma anche della sua risurrezione; cioè la storicità dell'avvenimento supremo della sua vita terrena, segno certo della sua Divinità e della nostra Redenzione. La novità di questa ricerca consiste nel fatto che, per la prima volta, la risurrezione è studiata direttamente nel suo accadere. Quest'articolo, che ha scopo divulgativo, è stato tratto da diverse cartelle pubblicate sul Web e improntate dal volume "A. Persili, SULLE TRACCE DEL CRISTO RISORTO, Ed. Casa della Stampa, Tivoli, 1988". Si parte dal principio che se Gesù è veramente risorto ha certamente lasciato nel sepolcro delle tracce, per mezzo delle quali è possibile ricostruire la dinamica stessa della risurrezione. Le tracce, che Giovanni vide nel sepolcro, dimostravano, al di sopra di ogni dubbio, che il corpo di Gesù era entrato nella vita gloriosa.
Col passar del tempo, le prove furono del tutto dimenticate e più nessuno è riuscito ad interpretarle nel modo esatto. Infatti, anche la traduzione italiana, usata per la liturgia, è errata e non descrive quello che effettivamente Giovanni vide nel sepolcro, ma presenta delle osservazioni illogiche ed inconcludenti
IL TESTO EVANGELICO
(Giovanni cap. 20) [5]Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. [6]Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, [7]e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. [8]Allora entrò anche l'altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. [9]Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti.
La tomba, scavata nella roccia, ha un’apertura di circa 1,30. La stanza sepolcrale è piuttosto uno stretto corridoio, largo poco più di un metro e lungo poco più di tre metri. Sulla parete destra, rispetto all’ingresso, è scavato un loculo, sollevato da terra. Era questo la pietra sepolcrale dove riposò Gesù per tre giorni.
RITI DI SEPOLTURA EBRAICI
Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo, membri del Sinedrio e discepoli segreti di Gesù, si attennero scrupolosamente ai dettami delle tradizioni funerarie ebraiche. Non appena Gesù emise l'ultimo respiro, egli si recò immediatamente a Gerusalemme, per chiedere a Pilato il corpo di Gesù. Intanto aveva incaricato i suoi servi di acquistare un rotolo di tela di lino pregiato (chiamata sindone) ed aveva chiesto a Nicodemo di provvedere con i suoi servi ad acquistare e portare sul Golgota una grande quantità di aromi. Utilizzando vari tagli di tela, con estrema cautela, i servi, seguendo le istruzioni del loro padrone, calarono Gesù dalla croce con delicatezza ed attenzione, e lo deposero su una tela (la Sindone), distesa sul terreno. L’estrema delicatezza ed attenzione era dovuta al fatto primo che non dovevano toccarlo con le mani nude pena la perdita della purità rituale e l’esclusione dal mangiare la Pasqua e, secondo, che non si sperdesse neppure una goccia del sangue rappreso perché anche le zolle di terra intrise di sangue dovevano essere seppellite con la salma. Giuseppe avvolse il corpo di Gesù, facendo passare la tela da sotto i piedi fino al capo, e poi, di sopra, dal capo fino ai piedi, ripiegando le parti laterali della tela sulla parte anteriore del corpo. Gesù fu trasportato dalla sommità del Golgota alla pietra dell'unzione, sulla quale si svolse la preparazione vera e propria alla sepoltura. Se Gesù fosse stato vestito e se la tela fosse stata un lenzuolo, non ci sarebbe stato bisogno di far altro, se non delle semplici legature. Ma Gesù era nudo e la sola tela non difendeva a sufficienza il corpo di Gesù dal contatto dei profumi, da cui poi sarebbe stato avvolto. Allora Giuseppe d'Arimatea, usando sempre la tela dal rotolo di sindone, tagliò delle fasce, cioè delle strisce di tela abbastanza larghe, con le quali avvolse il corpo di Gesù dai piedi fino al collo, ottenendo lo scopo di tenere ben ferma la tela o sindone attorno al corpo. Intanto Nicodemo, che aveva portato oltre trentadue chili “100 libbre” di una mistura di mirra e di aloe, aveva preparato un giaciglio di aromi sulla superficie calcarea del sepolcro e inoltre aveva versato una certa quantità di aromi tra le fasce nel momento dell'avvolgimento. Quindi il corpo di Gesù fu trasportato nel sepolcro e adagiato sul giaciglio di profumi. Giuseppe applicò intorno al capo di Gesù un sudario, cioè una specie di asciugamani, in modo che la sindone non era più visibile in nessuna parte, perché coperta dalle fasce e dal sudario. Infine, Nicodemo versò i restanti profumi su tutto il corpo. Così terminò la sepoltura di Gesù.
Chi viene a conoscenza delle mirabili tracce della risurrezione rimane sorpreso e si domanda sconcertato per quale motivo non ha mai sentito parlare di argomenti così interessanti e così convincenti.
1. Nell'annuncio della Buona Novella si è sempre privilegiata la fede e si è evitato di far ricorso alla storia ed alla scienza per due motivi: prima di tutto per formare a una fede autentica i cristiani , fuori dall’esperienza fisica; e inoltre per il timore che la storia e la scienza contraddicessero l'insegnamento della fede.
2. Nell'esegesi dei brani evangelici, che hanno diretta relazione con l'evento della risurrezione, si sono verificati dei fatti incredibili, che hanno occultato le tracce della risurrezione, tanto da far seriamente pensare ad una macchinazione diabolica. Fin dall'inizio, molti punti essenziali dei racconti evangelici sono stati male interpretati, influenzando naturalmente il lavoro di tutti gli esegeti posteriori, in modo del tutto negativo. In seguito, dalle errate interpretazioni si è passati alle traduzioni infedeli, che hanno precluso del tutto la possibilità di giungere alla comprensione esatta dei racconti evangelici.
\Con grande meraviglia, si scopre che i racconti evangelici della sepoltura e delle visite al sepolcro non sono affatto contraddittori, ma si completano a vicenda, formando un unico logico racconto; si scopre che è possibile ricostruire non solo tutte le modalità della sepoltura, ma anche la dinamica della risurrezione, attraverso le tracce rimaste nel sepolcro; si scopre che la Sindone di Torino, con le meravigliose impronte, è perfettamente inserita nei racconti evangelici; si scopre che non c'è nessuna opposizione tra scienza e fede, ma che, al contrario, la prima offre alla seconda i suoi mezzi tecnici, per approfondire sempre più la conoscenza della fede.
LA SEPOLTURA DI LAZZARO E QUELLA DI GESU’
: "Il morto uscì con i piedi e le mani avvolte in bende e il volto coperto da un sudario" (Gv 11,14).
Lazzaro non era stato sepolto avvolto con bende, ma, secondo la millenaria tradizione ebraica, il corpo di Lazzaro era stato lavato con acqua, unto con olio profumato, rivestito dei suoi abiti. Quindi gli avevano legato le mani e i piedi e gli avevano legato intorno al volto un sudario, per tenere ferma la mandibola. Infine, deposto il corpo nel sepolcro, avevano coperto il suo volto con un sudario e l'avevano cosparso di aromi. Infatti Gesù, dopo aver fatto togliere la pietra dall'ingresso del sepolcro, si rivolge al morto ed ordina: "Lazzaro, vieni fuori" (Gv. 11,35). Lazzaro si levò a sedere, facendo cadere il sudario dal volto; si girò e, posti i piedi per terra, si alzò in piedi e, saltellando, si avviò verso l'apertura. Si fermò, appena fuori l'entrata del sepolcro, abbagliato dalla luce. Allora Gesù ordinò ai presenti: "Scioglietelo e lasciatelo andare" (Gv. 11,44). Alcuni dei presenti si avvicinarono a Lazzaro, sciolsero le bende delle mani e dei piedi e sciolsero la benda legato intorno al volto. Lazzaro, frastornato, si allontanò, avviandosi da solo verso la sua casa, senza destare meraviglia per il suo abbigliamento, perché indossava i suoi vestiti normali. E' importante notare che in questo episodio Giovanni dice che Lazzaro era legato con BENDE, mentre nel racconto della sepoltura di Gesù, cambia il sostantivo sostenendo che il corpo di Gesù fu legato con FASCE. La legatura con bende diventava un avvolgimento delle mani e dei piedi e la legatura con fasce diventava anche un avvolgimento del corpo.

LE DONNE E LE LORO VISITE AL SEPOLCRO
Gli evangeli narrano che, al mattino del primo giorno dopo il sabato, ebbero luogo quattro diverse visite al sepolcro.
1. LA PRIMA VISITA
Al mattino del primo giorno dopo il sabato, quando era ancora buio, tre donne uscirono da Gerusalemme, per recarsi al sepolcro ad ungere il corpo di Gesù. Erano Maria Maddalena, Maria, madre dell'apostolo Giacomo, “ il minore”, e Salome, madre degli apostoli Giacomo, "il maggiore", e Giovanni. Le tre donne non erano ancora giunte in vista del sepolcro, quando dietro il monte degli Ulivi, al di là del Tempio, sorse il sole. I primi raggi illuminarono la pietra, che chiudeva il sepolcro, e la fecero ribaltare in aria, come se fosse un fuscello. La pietra ricadde pesantemente sul suolo roccioso del Golgota e provocò un piccolo e circoscritto terremoto. Le donne, sorprese dalla vibrazione del terreno, ebbero paura e, non sapendo cosa fosse accaduto, si fermarono impaurite.
Intanto i raggi del sole, tolto l'ostacolo della pietra, illuminarono l'interno del sepolcro e in quell'istante Gesù risuscitò da morte. Il Padre, con un raggio di luce, era venuto a svegliare il suo Figlio obbediente. Quando, poco dopo, le tre donne giunsero in vista del sepolcro, lo videro aperto e videro la pietra giacente per terra. Esse si meravigliarono, perché "la pietra era molto grande" (Mc 16,4) e non riuscivano a capire quale forza prodigiosa l'avesse fatta ribaltare. La Maddalena, supponendo che il sepolcro fosse stato violato da nemici e che il corpo di Gesù fosse stato rubato, corse subito a Gerusalemme a portare la notizia agli apostoli. Le altre due, invece, si accostarono al sepolcro e, quando entrarono, non trovarono il corpo di Gesù, ma un angelo, che, con tanto rispetto, diede loro l'annuncio della risurrezione di Gesù e l'incarico di riferire l'accaduto agli apostoli. Impaurite si allontanarono e decisero di non eseguire il comando ricevuto.
2. LA SECONDA VISITA
Avvertiti dalla Maddalena, i due apostoli, Pietro e Giovanni, di corsa, si recarono al sepolcro, per rendersi conto dell'accaduto. Giovanni, che era più giovane, giunse per primo, ma non entrò, in attesa dell'arrivo di Pietro; però, spinto dalla curiosità, si chinò e, attraverso la bassa apertura che divideva i due locali del sepolcro, vide che le fasce, che stavano sulla pietra sepolcrale, erano vuote, abbassate. Questa constatazione lasciò l'apostolo sorpreso e perplesso. Giunse poi Simon Pietro, che entrò e contemplò cioè vide, ammirato, uno spettacolo di cui non capiva il significato e cioè le fasce distese, afflosciate, vuote e il sudario, che era stato posto sul capo di Gesù, non disteso con le fasce, ma, al contrario, avvolto in una posizione straordinaria, perché si manteneva eretto, benché non ci fosse più nulla a sostenerlo. Il sudario era in una posizione di equilibrio instabile, contro le leggi della gravità. Questa è la testimonianza di Pietro nella sua esatta interpretazione e traduzione: "Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e contemplò le fasce distese e il sudario, che era sul capo di lui, non disteso con le fasce, ma al contrario avvolto in una posizione unica (mirabile)" (Gv 20, 6-7).
Entrò anche Giovanni, vide la posizione del sudario e credette, perché finalmente aveva capito il significato della parola risurrezione. Aveva capito che la parola risurrezione significava trasfigurazione, trasformazione della materia del corpo in qualcosa che aveva i caratteri dello spirito, per poter entrare nella vita gloriosa ed eterna.
Le tracce rimaste sulla pietra sepolcrale si potevano spiegare solo con la risurrezione. Infatti, non era assolutamente possibile sottrarre il corpo di Gesù dall'interno delle tele, senza svolgere le fasce e, quel che era ancora più difficile, senza far abbassare il sudario. La risurrezione è avvenuta con estrema delicatezza e le tele quasi non si sono accorte che non avvolgevano più nulla.
Le raffigurazioni, che mostrano Gesù uscente dal sepolcro, sono immagini mitiche, perché la risurrezione è avvenuta in tutt'altro modo: dall'interno delle tele il corpo di Gesù, riunito alla sua anima e alla Divinità del Verbo, è entrato glorioso nella vita eterna, senza spostamenti nel tempo e nello spazio. Pietro e Giovanni ci hanno tramandato la descrizione delle tracce che essi hanno visto nel sepolcro e, in tal modo, ci hanno informato sull'esistenza anche di altre tracce in negativo: cioè, di ciò che doveva essere sulla pietra sepolcrale, ma non c'era più.
a. Il corpo di Gesù era scomparso. La posizione delle tele faceva capire che non si era rianimato, come quello di Lazzaro; e che non era stato rubato. La pietra dell'entrata del sepolcro era stata ribaltata, non per far uscire Gesù, ma per affermare, con un simbolo, che la porta degli inferi, cioè del regno della morte era stata scardinata e che non poteva più essere richiusa.
b. Erano scomparsi anche i trentadue chili e mezzo di aromi. L'unico modo per togliere gli aromi dalle tele, senza lavarle, era quello di farli volatilizzare. Nel momento della risurrezione di Gesù si è prodotto un calore intensissimo, ma brevissimo, che ha fatto volatilizzare tutti gli aromi, ed ha asciugato le tele. Così si spiega come mai il sudario rimase rialzato, senza essere più sostenuto. L'improvviso calore produsse una specie di inamidazione, che irrigidì il sudario. Anche le fasce subirono lo stesso processo, ma erano troppo pesanti per poter rimanere rialzate. La grande quantità di aromi è stata provvidenziale, perché ha impedito alle tele di prendere fuoco, nel momento della risurrezione.
3. LA TERZA VISITA
Maria Maddalena, dopo aver avvertito gli apostoli, tornò al sepolcro quando ormai Pietro e Giovanni non c'erano più. Piangendo, cercava il corpo di Gesù. Ad un tratto entrò nel sepolcro e vide due angeli che le domandarono cortesemente: "Donna, perché piangi?" La Maddalena quasi non fece caso alla visione e rispose che cercava il suo Signore. Poi si voltò, e vide un uomo che le chiese : "Donna, perché piangi?" La Maddalena diede la stessa risposta. Ma quando quell'uomo la chiamò per nome, ella riconobbe Gesù e lo abbracciò con tutto l'ardore del suo amore. Poi Gesù le disse: "Non mi trattenere" (Gv 20,17); e la mandò ad annunciare agli apostoli la sua risurrezione ed a correggere l'annuncio che aveva dato prima. La Maddalena si avviò verso Gerusalemme.
4. LA QUARTA VISITA
La Maddalena incontrò il gruppo di tutte le altre donne, che, partito da Gerusalemme, si era fermato ad ascoltare il racconto di Maria, madre di Giacomo, e di Salome. Le donne si mostrarono incredule e scuotevano il capo, perché non riuscivano a credere né alla visione dell'angelo né, tantomeno, alla risurrezione di Gesù. La Maddalena confermò il discorso delle sue compagne e aggiunse di aver visto e parlato con Gesù risorto. Allora, tutte le donne decisero di andare insieme al sepolcro per rendersi conto dell'accaduto. Quando entrarono, non videro nessuno e rimasero deluse. Ma, all'improvviso, apparvero due angeli che le rimproverarono per la loro incredulità, dicendo: "Perché venite a cercare tra i morti colui che è vivo?" (Lc 24,2). Poi le catechizzarono e le inviarono a dare l'annuncio agli apostoli. Questa volta le donne non ebbero timore di aderire al comando ricevuto. Andarono insieme e annunziarono tutto l'accaduto agli Undici. L'entusiastico e gioioso annuncio della risurrezione, portato dalle donne, non convinse i discepoli, che rimasero freddi e distaccati, non potendo credere che qualcuno potesse risorgere dai morti. Ma l'annuncio sortì l'effetto di sconvolgere l'animo dei discepoli, come racconta l'evangelista Luca nell'episodio dei due di Emmaus: "Ma anche alcune donne dei nostri ci hanno sconvolti: essendo state all'alba al sepolcro e non avendo trovato il corpo di lui, sono tornate dicendo d'aver veduto una visione di angeli, i quali dicono che egli è vivo" (Lc 24, 22-23).

COSA VIDERO PIETRO E GIOVANNI.
Quando Pietro e Giovanni entrarono nel sepolcro, videro che:
1. Il corpo di Gesù non c’era
2. Gli aromi si erano tutti volatilizzati
3. Le tele erano completamente asciutte
4. Le fasce erano vuote e distese, afflosciate sulla pietra sepolcrale e non per terra
5. Il sudario era rimasto rialzato, in posizione di avvolgimento, benché non fosse più sostenuto.

giovedì 18 febbraio 2010

AMEN

PAROLE
AMEN
La parola “Amèn” che ci viene dal Vecchio Testamento è sempre usata in senso di forte affermazione riferito a quello che si è detto prima, sia essa una preghiera, un salmo o una maledizione. Essa sottolinea e rafforza il concetto precedente e solo di rado è usata in senso di augurio o di desiderio. Nel libro del profeta Geremia si trova, infatti, la parola “Amen” usata in senso di desiderio, di augurio ed è, quando il profeta Anania, antagonista di Geremia, predisse che il Signore nello spazio di due anni avrebbe distrutto Nabucodonosor e il suo regno ridando così la libertà ad Israele. (Geremia cap. 28)[6]Il profeta Geremia disse: «Così sia! Così faccia il Signore! Voglia il Signore realizzare le cose che hai predette, facendo ritornare gli arredi nel tempio e tutti i deportati da Babilonia in questo luogo! Anania era un falso profeta che non parlava per bocca del Signore, ma solo secondo suoi desideri ed aspettative che non rispecchiavano per niente i progetti di Dio. Geremia dopo qualche giorno ricevette la giusta profezia dal Signore ed Anania fu smentito, purtroppo, e non solo la schiavitù di Nabucodonosor continuò ed Anania morì in quello stesso anno. Comunque solo in questo caso, forse, la parola Amen fu usata in senso non affermativo.
E’ tanto affermativo il senso di “amen” che la traduzione che più si avvicina al senso che ha nella lingua ebraica è “Sì, è così”, oppure “Così deve essere, e così sarà”. Dire “amen”, significa proclamare che si ritiene vero ciò che è stato detto, al fine di ratificare una proposta o di unirsi ad una preghiera. Come in Deuteronomio 27,15-26 dove di fronte alle dodici maledizioni di ordine morale, il popolo proclamerà il suo “Amen”, cioè la sua totale ed incondizionata adesione, attestato quindi come un solenne giuramento: colui che trasgredirà questo giuramento si riterrà maledetto.
Nella liturgia la parola può assumere anche un altro valore: se ci si impegna nei confronti di Dio, come nella preghiera, lo si fa perché si ha fiducia nella sua parola e ci si affida alla sua potenza e alla sua bontà. Così questa adesione totale è nello stesso tempo benedizione da parte di Colui al quale ci si sottomette e che accoglie la nostra preghiera ed è preghiera sicura di essere esaudita.
Per gli esperti della lingua ebraica la parola “Amen” ha la stessa radice di quella che significa “fede”. Ora la fede del popolo ebraico nell’A.T. era un atteggiamento totalizzante, riguardava tutto intero l’individuo in ogni sua attività. Esempio di questa fede è la fede di Abramo che chiamato da Dio a lasciare la sua terra, i suoi parenti, gli dei nei quali aveva creduto fino ad allora e ad andare verso l’ignoto, fidandosi solo del Dio che gli aveva parlato. Affidandosi a Lui che aveva promesso una terra, perché era un nomade e non aveva terra, che aveva promesso di dare una discendenza a lui che aveva una moglie ormai vecchia e sterile. In nome di quella totale fiducia in Dio era disposto a sacrificare anche il figlio della promessa, Isacco, sicuro che il Signore in qualche modo avrebbe mantenuto le sue promesse. Fede incrollabile dunque, come incrollabile deve essere l’attestazione “amen”.
Nel N.T. l’Amen di Dio è Cristo Gesù: è Lui, infatti, la verità assoluta. Tutte le verità dell’uomo sono verità relative, parziali, né complete né definitive mentre solo in Gesù la verità diventa assoluta e completa. Solo attraverso Gesù il Padre diventa comprensibile: arrivare al Padre attraverso il Figlio.
Infine per ben 18 volte nel Vangelo di Giovanni Gesù, al fine di sottolineare ciò che sta per dire, si rivolge ai suoi interlocutori iniziando il discorso con ”Amèn Amèn vi dico….”. che in Italiano è giustamente tradotto come” In verità in verità vi dico…”. E’ la solennità del discorso che Giovanni vuole rimarcare chiamando in causa la verità assoluta, cioè Dio. Dicendo “Amèn Amèn” Gesù è come se dicesse “Non sono io che vi parlo, ma state ascoltando la parola di Dio che parla attraverso me”.
Spero di aver chiarito il significato della parola e che d’ora in poi si pronunzi “Amèn” pensando al suo intrinseco significato e, dove è possibile, sostituendola al talvolta, ambiguo ”Così sia”.

lunedì 18 gennaio 2010

ALBERO

Albero
Cosa c’entra l’albero con le parole della Bibbia? Sembrano due concetti tanto lontani, eppure cominciò proprio con un albero. Un albero singolo piantato in mezzo ad un giardino. “(Genesi cap. 2) [9]Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male.”
Il Signore dalla polvere della terra creò l’uomo e soffiandogli nelle narici il suo Spirito lo rese simile a Lui. Proprio per l’uomo creò un giardino in oriente e ve lo pose perché lo coltivasse e lo custodisse. Ogni albero, ogni erba il Signore l’ aveva messa al servizio dell’uomo per averne cibo, utensili, luce, calore. C’era di che contentarsi; all’uomo non mancava nulla: C’era una unica limitazione: (Genesi cap. 2)16]Il Signore Dio diede questo comando all'uomo: “”Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, [17]ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti””.
Proprio questa limitazione spinse l’uomo a disobbedire al comando di Dio in questo aiutato dal tentatore antico, dal serpente: “(Genesi cap. 3) 5]Anzi, Dio sa che quando voi ne mangiaste, si aprirebbero i vostri occhi e diventereste come Dio, conoscendo il bene e il male”.
Diventare come Dio, poter fare a meno di Dio era un sogno troppo bello perché l’uomo vi rinunciasse. Sì, è vero il Signore l’aveva fornito di tutto, aveva avuto il dominio di tutto il creato ma dipendeva sempre da Dio. Ora c’era la possibilità di avere di più, di essere veramente autonomo, di potersi sostituire a Dio, di essere Dio. Poteva lasciarsi scappare una occasione simile? E, ubbidendo al serpente, mangiò dell’albero proibito, il frutto di quell’unico albero in mezzo al giardino del quale il Signore gli aveva proibito di mangiare. E subito gli si aprirono gli occhi: si accorse di essere nudo, mentre prima, pur essendo nudo, non se ne accorgeva. Di colpo l’uomo si accorge di aver perso tutto, di non avere più nulla su cui contare. Prima c’era l’amore di Dio che lo proteggeva, che lo avvolgeva tutto dando una direzione alla sua vita, liberandolo da ogni preoccupazione e ora, d’improvviso, si accorge di non poter contare che su se stesso: ha fatto la sua scelta. Non che l’amore di Dio sia venuto meno, che abbia volutamente abbandonato la sua creatura. No questo, no: Dio non cessa di amare l’uomo. Ritorna alla mente la parabola che Gesù racconta nel vangelo di Luca (15,11-32), la parabola così detta di “Figliuol prodigo” ma che sarebbe più appropriato chiamare del “Padre misericordioso”. Il figlio decide di allontanarsi dal padre perché non si sente libero, l’amore di cui il padre lo circonda gli sembra che lo stia soffocando, che non riesca a realizzarsi e chiede che gli venga dato quanto gli spetta della sua eredità. Il padre, pur grandemente addolorato, proprio per il grande amore che porta al figlio, gli dà quanto gli spetta; e quello se ne va’. Il padre si strugge d’amore per questo figlio e, dall’alto della torre della sua casa, scruta la strada in attesa di vedere il figlio ritornare.
Così è il comportamento di Dio nei confronti di Adamo ed Eva che fanno liberamente la loro scelta. Hanno scelto per loro, e conseguentemente per noi, di vivere lontano da Dio, di uscire dalla tutela mangiando il frutto dell’albero della “conoscenza del bene e del male”. Da allora Dio-Padre sta sempre alla finestra scrutando l’orizzonte per vedere immediatamente il ritorno dei suoi figli. Egli non ha cessato di amare, anzi si va struggendo d’amore.
Nel Cantico dei Cantici questo amore viene allegoricamente cantato come un innamorato ed una innamorata che vanno alla ricerca dell’oggetto del loro amore, scambiandosi continuamente i ruoli: talvolta e lui che va alla ricerca dell’innamorata, talaltra è lei. Sono poesie d’amore raccolte senza un filo logico, senza una trama ma in ognuna traspare questo amore struggente. Questi testi possono lasciarci sconcertati per il loro realismo e la voluta passionalità, ma essi non hanno segreti per i mistici che ben li comprendevano e leggevano trovando in essi un dolcissimo colloquio con il Signore. Allegoricamente il Cantico è l’unione costantemente cercata da Dio con l’anima della sua creatura. Questa ricongiungimento è stato reso sempre difficoltoso a causa dei tradimenti dell’uomo che con i suoi continui adulteri provocava all’ira il Signore Iddio. Ma Dio, innamorato della sua creatura, mai ha cessato di amarla e di cercarla aspettandone accoratamente il ritorno. A questo figlio lontano il Signore invia continuamente messaggeri (i profeti) e scrive appassionate lettere d’amore. (Certi esegeti infatti vedono nella Scrittura, tutta la Scrittura, una lettera d’amore appassionata che il Creatore, l’amante, manda alla sua creatura amata, all’uomo.)
Le porte del giardino di Eden si sono chiuse e l’uomo ne è stato scacciato, l’albero della vita non si vede più nel buio, nelle tenebre di cui ora è avvolto l’uomo. L’uomo in questo buio atroce, in questa libertà che ha volutamente scelto, arranca sempre più disperato, sempre più disorientato, sempre più avviluppato in se stesso, sempre più privo di quella libertà che andava cercando. Ma non è abbandonato; il Signore, anche se lontano, continua a vegliare su di lui. Lo libera dalla schiavitù d’Egitto, gli dà una Legge, i Comandamenti, che gli serva da guida per ritrovare la strada di casa e decide di piantare un altro albero. L’albero della Vita piantato in Eden si è inaridito, ne occorre un altro che porti frutto.
Il nuovo albero che il Signore pianta è l’albero della Croce cui appendere il suo Figlio diletto. Il Signore, il Padre Misericordioso sempre in attesa del figlio perduto, ha voluto piantare questo nuovo albero che faccia da faro con la sua luce spendente, Luce divina, all’uomo perso nel buio della notte. Non è più albero di “conoscenza del bene e del male” ma albero di redenzione, albero del riscatto dell’umanità. Di tutta l’umanità, perché quel frutto, quel Figlio è stato appeso all’albero per la redenzione di tutta l’umanità. Pertanto anche se questi figli sperdutisi avranno da fare un cammino di fede diverso dal cammino del cristiano per la loro redenzione avranno comunque a che fare con questo legno. Non ne avranno spesso né conoscenza né consapevolezza ma è solo quell’albero che redime, la chiave di apertura delle porte dell’Eden chiuse un tempo.
Il frutto di questo albero non è vietato all’uomo, anzi è invitato a cibarsene:” Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio Corpo offerto in sacrificio per voi”. Come l’albero piantato in Eden, l’albero della conoscenza del bene e del male, dava povertà e morte questo dà libertà e vita; quello impoveriva questo arricchisce, quello oscurava la conoscenza questo apre alla Verità, quello ci ha resi nudi questo ci ha rivestiti di Spirito Santo.
Si avvicina il tempo di Quaresima in cui il tema, il tema della Croce, mi pare quanto mai appropriato. Possa questo legno, sui cui rami il nostro Signore ha steso le braccia come un invito ad un abbraccio rivolto al mondo intero, possa essere segno di pace e non di violenza, segno di riscatto e non di oppressione, segno di luce dopo tanta tenebra.

giovedì 29 ottobre 2009

DESERTO

Deserto 1
I brani evangelici dell’Avvento ci parlano spesso del deserto. Nella storia di Israele prima e del cristianesimo poi, il deserto ha un’importanza e una rilevanza notevole.
Uscito dall’Egitto il popolo ebraico, il Signore lo spinge nel deserto del Sinai, incontro a difficoltà di ogni genere per fare di questi il suo popolo. Da una parte c’è il disegno di Dio e dall’altra c’è la ribellione del popolo che rimpiange le comodità lasciate in Egitto, anche se queste erano amare e condite di ingiustizia. Rimpiangeva la carne e persino le cipolle d’Egitto, tale era la durezza della prova che stavano sperimentando. Stavano provando fame, sete, carestia, solitudine, pericoli di ogni genere, pericolo di serpenti, pericolo di popolazioni ostili che contendevano a costo della vita quel poco che il deserto poteva offrire, ma stavano provando anche l’amore di Dio, stavano provando la SHEKINA’, la costante presenza di Dio nella loro vita. L’uomo nel deserto, dove non cresce nulla, dove si possono trovare sterpi e rocce e sabbia, non può fare affidamento sulle sue forze, si rende conto di essere troppo debole ed inerme per affrontare quella solitudine senza confine, non gli resta che fidarsi e affidarsi a Dio. Per quarant'anni Israele visse in questa condizione, al cospetto costante di Dio, vivendo di quanto il Signore gli elargiva. Certo questo privilegio vissuto, non fu immediatamente percepito dal popolo, che anzi non fece che mormorare, ma lo capì in seguito, una volta al sicuro nella terra promessa. Lontano dal deserto Israele comprese la particolare esperienza e intuì, non lo comprese perché nessuno poteva comprenderlo fino in fondo, il progetto che Dio ha per l’uomo. Ancora oggi, sulla scia dei profeti di Israele, c’è chi rimpiange l’esperienza del deserto e, sospirando, auspica che ogni Israelita abbia ad avere un’esperienza simile. Non solo, ma oggi nello stato di Israele gli allievi ufficiali dell’esercito pronunciano il loro giuramento a Masada, nel deserto di Giuda.
Dopo cinquanta giorni dal passaggio del Mar Rosso il popolo ebraico ebbe in dono la Legge, i Comandamenti a suggello della nuova alleanza che il Signore concluse con tutto il popolo di Israele. Non era un’alleanza con un individuo singolo (Noè, Abramo, Isacco, Giacobbe, ma con tutto un popolo che si impegnò, ai piedi del Sinai, dicendo: ”Faremo e ascolteremo”.Dissero “faremo” prima ancora di “ascolteremo” per indicare che nel “fare” avrebbero “ascoltato” e capito; cioè fatti e non parole.
E nella esperienza del popolo cristiano, che rilevanza ha il deserto? Innanzi tutto il deserto viene in evidenza con la predicazione del Precursore di Gesù, Giovanni, detto il Battista, come voce di colui che grida nel deserto “preparate le vie del Signore”. Nel deserto appunto, dove uno grida e le sue grida sono portate via dal vento; come avvenne per Giovanni che non fu ascoltato. Questo brano evangelico è un adattamento del brano di Isaia ( 40,3) che dice: ”Nel deserto preparate la via al Signore” in accordo con la concezione ebraica del deserto.
Dopo l’annuncio della venuta del Signore e ricevuto il battesimo nel Giordano per opera di Giovanni, Gesù viene dallo Spirito sospinto nel deserto dove stette quaranta giorni, digiunando e, sicuramente, pregando. Perché nel deserto? Perché nel deserto si incontra più facilmente Dio, in assenza di tutte quelle cose di cui sembra che l’uomo non possa fare a meno. Nel deserto tutto è ridotto all’essenziale, non c’è posto per il superfluo. E’ pur vero che nel deserto dimorano anche spiriti immondi, ed è per questo che gli ebrei spedivano nel deserto il capro espiatorio dopo averlo caricato dei peccati del popolo (Lev. 16,10). Ma l’uomo nel deserto, privo dei condizionamenti dei beni terreni, è in grado di scegliere, nella sua piena libertà, tra il bene ed il male, tra Dio e il maligno.
Questo ben compresero gli eremiti, di cui S. Antonio Abate che festeggiamo il 17 gennaio, è l’emblema. Cessate le persecuzioni, diventato il cristianesimo religione consentita, venuto meno il sangue dei martiri, i padri del deserto, con la loro rigorosissima vita ascetica e la rinuncia al mondo, si incaricarono, con il loro esempio, della evangelizzazione dei pagani. Intanto la parola italiana “eremita” viene dal greco “èremo” che significa deserto: quindi gli eremiti erano coloro che, abbandonate le comodità del mondo, vivevano nel deserto al cospetto di Dio pregandolo incessantemente. Questi uomini volontariamente si privavano, non solo dei piaceri del mondo, ma anche di quelle cose che, ai loro occhi, erano fonte di piacere se non proprio di tentazione peccaminosa come, per esempio, l’acqua. Essi stavano perciò lontani dall’acqua e isolati anche dagli altri uomini e soprattutto dalle donne ritenute, allora da un cristianesimo mal compreso, fonte ed occasione di pensieri peccaminosi, vivendo in grotte o anfratti naturali o rudimentali capanne, dedicavano la loro vita alla contemplazione, alla preghiera continua, allo studio delle Sacre Scritture, come S. Girolamo, che tradusse in latino i Vangeli, e tanti altri, e osservavano una rigorosissima vita ascetica. Il primo di questi, storicamente documentato, fu appunto S. Antonio, (morto intorno al 356), detto Abate, considerato il precursore del Monachesimo. Intorno a lui si riunirono altri eremiti che nel deserto egiziano facevano le loro esperienze ascetiche. Qui iniziò il movimento monastico che San Benedetto da Norcia portò avanti in Europa ritirandosi a Subiaco prima e successivamente a Monte Cassino, fondando monasteri e abbazie che si rivelarono, oltre che fonte di evangelizzazione, centri di cultura e di lavoro. Esistono ancora eremiti, continuamente riformati nelle loro regole per adattarle alle esigenze dei tempi, ma sempre col rigore della solitudine e della essenzialità della vita.
Cosa possono oggi dire al cristiano queste esperienze ascetiche del Cristianesimo dei primi tempi, e dell’esperienza nel deserto del popolo ebraico? Ci dicono che se non facciamo il deserto nel nostro cuore, spogliandolo di tutto, non possiamo far posto a Dio, non possiamo incontrarLo. Il cristiano deve vedere le cose terrene, anche gli affetti più cari, per non parlare delle cose materiali, con l’occhio esclusivo di Dio: “(Luca cap. 14)[26]«Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.”.